vermeer1La Stanza di Antonella
di Antonella Sarno

Non fa più notizia aprire la tv e ascoltare l’intervista di un anziano che ammette di non potersi più pagare un vitto sufficiente e il riscaldamento di casa, e figurarsi le vacanze. Non fa effetto sentirlo dire che ha indosso la stessa giacca da tre anni. Conforta ascoltarlo solo quando dice che spera ancora nel cambiamento e qualche santo sarà. Tutto passa e l’umanità, contando sui principi naturali della sua evoluzione, confida sempre su un futuro migliore. Non fa effetto nemmeno che l’intervista si svolga sotto il cielo stellato della tua città, in un’altra di quelle sere che a Prato non c’è riposo, proprio davanti ai monumenti che l’hanno resa bella. Vestigia di tempi straordinari e morti che rendono nel paragone il presente ancora più difficile. Strizza il cuore invece quello striscione di saluto, immobile e triste come una bandiera sulla luna, dietro quel gruppo di pratesi rassegnati e insieme quasi lusingati di essere in televisione in prima serata; e che importa se come rappresentanti dei peggiori disgraziati, tanto benvoluti dai programmi di miserie e afflizioni. “Benvenuti nel capoluogo dell’illegalità, benvenuti a Prato”.
Non so se si può chiamarlo coraggio estremo il dichiarare, con prepotente evidenza, la realtà che tutti sanno e non osano dire. Di certo sparata sullo schermo di casa questa verità appare così oltraggiosa da far pensare ad un altro trucco per vendere notizie e immagini. No, non siamo noi quelli in prima fila, è di sicuro un posto del sud da sempre malato di camorra e malaffare. No, non siamo noi, anche se i convenuti parlano un dialetto familiare e si scherniscono come solo i toscani sanno fare. Prendiamone atto dunque, che siamo una città di frontiera, che il nostro nuovo patrimonio sono i poteri malavitosi forti, che come un morbo pestifero hanno contagiato il territorio e le dimensioni oramai sono tali che non è possibile nessun altro intervento. Siamo la capitale del riciclaggio, dello sfruttamento del lavoro e della persona. Siamo la patria dei bastardi in blazer che ammucchiano capitali sporchi e li reinvestono in società che sembrano un modello di produttività . E costruiscono case e alberghi come al Monopoli, dove ogni volta che passi paghi la tassa o vai in prigione senza passare dal via. Siamo il regno di piccoli criminali tagliagola, che ammazzano per due soldi e un cellulare, e quando non hanno di meglio si ammazzano tra loro. Siamo ostaggio di quelli che spacciano nel buio sinistro dei vicoli e non ci fanno uscire di sera, di quelli che lo fanno disinvolti, addirittura nella luce piena dei giardinetti, nei pomeriggi di bambini e merende. Siamo quelli della prostituzione a basso costo, sesso povero diviso per colore; quello nero porta a porta tra i magazzini delle periferie, quello giallo nelle poche oasi verdi della città, quello biondo e pallido dell’est che sbuca, nemmeno troppo furtivo, a ogni calar del sole in tangenziale.
Non ha fatto la domanda chiave il giornalista. Si è limitato all’ascolto di drammi personali e nuove grandi necessità. Si è allineato al tono sarcastico di gente che aveva lavoro e dignità e, pur ritrovandosi senza nulla, riesce comunque a ironizzare sulla propria sorte, con una forza d’animo che non si ritrova in nessun altro posto. Come dire che anche il dolore peggiore può avere in sé una forza comica dirompente che trascende tutto il tragico delle esistenze; perfino quelle insopportabili o impossibili, in fondo anche lui aiuta ad andare avanti. Non ha fatto la domanda peggiore, il giornalista, e cioè come siamo arrivati fin qui.
La risposta sarebbe stata imbarazzante e il servizio poteva passare, inevitabilmente, da semplice approfondimento giornalistico a vera e propria denuncia. Meglio passare oltre e arrivare alla svelta ai saluti di circostanza. Non si possono fare dichiarazioni che vanno oltre la lamentela, in questo paese. Si può correre il rischio, denunciando i colpevoli ,di indicare anche l’unica possibile soluzione.
Prato è la seconda città della toscana, ma è la prima in Italia per fenomeno di immigrazione, la prima ad aver visto crollare la propria economia in tempi imprevedibili, in un’epoca di mutamenti sociali senza precedenti. Prato paga il suo provincialismo, la sua scarsa propensione all’azione che la rende vittima di un immobilismo inadatto ad affrontare le nuove sfide globali. Prato è una città con una mentalità vecchia, troppo poco lungimirante per adattarsi ai cambiamenti senza subirli tutti. Un tempo questa sua staticità è stata anche la sua qualità migliore, una preda facile da azzannare e spolpare. Ne ha approfittato per prima la politica, che se l’è divisa equamente come le parti di un vitello grasso. E’ stata scarnificata, e ora che è ridotta all’osso, è stata lasciata agli ultimi arrivati che ci stanno facendo il brodo finale. Anche la Regione, che ci tollera solo perché da secoli abitiamo il territorio, ha stabilito da tempo che non possiamo dare più nulla, ci vede utile solo per essere sorvolata dagli aerei o per ospitare nuovi inceneritori. Roma stessa ci ignora. Non si fanno piani speciali per Prato e si minimizza anche sul problema grave ed urgente dell’ordine pubblico. L’organico delle forze dell’ordine è insufficiente per densità di popolazione e problematiche strutturali e sociali. Lo sanno ma, al solito, le migliori concessioni non vengono fatte a chi non ha troppa visibilità né nazionale nè internazionale. Non si concede nulla a chi, rimasto improduttivo, non avrà più capacità contributiva e rappresenterà sempre e solo un problema. Si chiama atteggiamento antieconomico e non è tollerato da nessuna mente razionale. Nemmeno dalla agenzia delle entrate, che ne ha fatto il dogma degli studi di settore. Perciò Prato non ha diritto a progetti concreti, anche se dimostra di avere ancora potenzialità e coraggiosa determinazione. Chi onestamente si è fatto carico di tante problematiche andando in ginocchio fino ai piedi dell’urbe è tornato deluso. Non ci sono soldi, e quei pochi rimasti non toccheranno certo a noi. Come l’ acqua è destinata al mare e le disgrazie alle disgrazie, viene in mente che forse è proprio inutile darsi pena per un posto del quale tutti hanno già deciso il destino.
Si è chiesto quasi l’elemosina per avere diritto agli ammortizzatori sociali che sarebbero più che onesti per la prima economia disastrata d ‘Italia. Economia fatta di piccole aziende che negli anni d’oro era l’asse portante del paese. Un ‘ economia, vorrei ricordarlo, fatta di persone che ora non possono nulla se non farsi questa pubblicità nera in tv e nascondere, tra il riso e le lacrime, di non avere più speranza.
Abbiamo presentato credenziali passive e fatto cento volte mea culpa di fronte alla società, come se solo noi dovessimo scontare i peccati del mondo. Abbiamo messo, come si dice, il culo alla finestra, come succede quando oramai non si ha più nulla da perdere e si aspetta la fine, ballando sul ponte della nave che affonda. Io penso, invece, che abbia perso tutta l’Italia che noi abbiamo rappresentato e aiutato a crescere fino dagli anni peggiori del dopoguerra. Penso sinceramente che Prato sia lo specchio di un paese in declino che ha perso identità e dignità, e che si vende come una puttana, avendo già dato via per nulla tutti gioielli di famiglia; ed è per questo che non ci considera e non ci guarda. Troppo triste l’immagine di ritorno. Troppo dura la vergogna di sé stessi riflessa alla televisione. Così, come per tutte le cose che non si possono o non si vogliono vedere, basta un click e si cambia canale. Arrivederci Prato, arrivederci crisi economica e tv del dolore. Meglio i pranzi della Clerici e della Parodi, meglio i pacchi, meglio tutti gli altri disastri del mondo. Purchè lontano da noi, meglio, molto meglio, qualsiasi altro carosello.